Immagina Giovanna, 25 anni, e immagina Stefania, che ne ha 30 e ha perso qualche anno di università per motivi personali. Immagina che le due ragazze si conoscano in facoltà e facciano amicizia e che Giovanna si offra di aiutare Stefania a recuperare gli anni perduti. Le due giovani si sostengono l’un l’altra, studiano da sole, poi insieme, si interrogano a vicenda per simulare l’esame e pian piano, passo dopo passo, arrivano fino alla laurea. Nessuno ci farebbe un servizio tv o ci scriverebbe un articolo, un racconto, forse perché sono storie belle ma piuttosto comuni dentro un ateneo.
Quello che è normale nella nostra vita quotidiana diventa strano, interessante, particolare e può suscitare interesse, stupore o –chissà- rabbia e malcontento se le due ragazze si chiamano Mercy e Nala, nigeriana la prima, somala la seconda; se l’obiettivo è imparare i rudimenti di italiano come seconda lingua (tecnicamente si chiama Italiano L2); se Mercy possiede una scolarizzazione di secondo livello mentre Nala non è mai potuta andare a scuola. Se non hanno una lingua ponte, in quanto Mercy parla l’inglese nigeriano, il cosiddetto “pidgin”, mentre Nala parla solo somalo e, per capirsi, devono fare appello a quelle poche parole di arabo che entrambe hanno imparato durante la forzata permanenza in Libia.
Un incontro fortunato è quello con Mina, la maestra nonché “ex Direttrice”, sempre pronta a supportare volontariamente le persone che hanno bisogno della sua competenza didattica e della sua carica umana: così Mercy, che ha un livello più avanzato di padronanza dell’italiano, aiuta Nala a pronunciare le parole, a dividerle in sillabe, in cambio Nala le insegna parole della sua lingua Somali.
La maestra Mina nei due mesi di quarantena si è ingegnata a preparare il materiale didattico, partendo da parole semplici da associare agli oggetti: ha predisposto le parole in stampatello maiuscolo e le ha fornite in formato grande sia come parole singole che divise in sillabe da ricomporre. Questi i primi esercizi da proporre a Nala sapendo che non c’era tempo da perdere: iniziata la quarantena, ignari di quanto sarebbe durata, ci siamo chiesti come supportare le persone che partivano da zero come Nala alle quali serviva un supporto personalizzato, non essendo sufficiente la partecipazione alla classe virtuale che ogni giorno vede un centinaio di rifugiati e rifugiate connessi su varie piattaforme alla classe interna dello SPRAR o a quella pubblica del CPIA.
Il materiale era pronto ma per due mesi e mezzo noi operatori abbiamo accompagnato le persone in accoglienza “da remoto”, poiché non erano permesse visite prolungate nelle case, figurarsi le lezioni. Così abbiamo proposto alle ragazze presenti in appartamento chi volesse aiutare Nala a fare quotidianamente giochi di associazione, suddivisione e pronuncia delle parole e Mercy ha accettato entusiasta. Per chi legge è bene ricordare che le ragazze non hanno scelto di abitare insieme poiché nello Sprar si capita con qualcuno, non si sceglie con chi vivere, come all’Università. E si può andare più o meno d’accordo, fare comunità oppure ignorarsi. Mercy sta facendo questo gioco con Nala ogni giorno e consiste, ad esempio, nel ritagliare la parola DIVANO, pronunciarla correttamente, individuare l’oggetto, apporre il cartello sul divano; poi tagliare le varie parole in sillabe, scomporle, ricomporle, pronunciarle correttamente e via, sempre parole nuove, in un gioco che tuttavia è un impegno che le ragazze portano avanti ogni giorno; e dalla fine di maggio c’è anche un appuntamento settimanale di verifica, ché adesso si può fare in presenza con le dovute precauzioni e distanze, in cui la maestra fa il punto della situazione sia con l’allieva che con Mercy, la “peer-teacher”.
Nala ha l’umiltà di accettare l’aiuto di una persona che fino a poco tempo fa non conosceva e Mercy l’entusiasmo e la pazienza di accompagnarla: imparare la lingua per chi finora non ha goduto della libertà è il primo passo verso una dignitosa vita da donna libera.
Marco Milozzi