Due giovanissimi ragazzi somali sono arrivati a Fermo, per il progetto di accoglienza per singoli richiedenti o titolari di permesso di soggiorno. Ma loro due non vogliono scendere dal pullman dopo l’infinito viaggio dalle Piramidi alle Alpi. “Siamo marito e moglie, non vogliamo essere separati”.
E’ notte, è freddo, loro sono stanchissimi, lo sono anche i colleghi andati all’autostrada a prenderli per accompagnarli – così doveva essere – in due case diverse. “Facciamo così: stanotte alloggiate in una delle abitazioni di accoglienza e domani verifichiamo il da farsi”.
Così restano con noi solo per pochi giorni, il tempo che il Servizio Centrale (Ministero dell’Interno) da Roma trovi altra collocazione per nuclei familiari in Italia.
Facciamo un colloquio con la nostra mediatrice somala, spiegando che l’alloggio è solo temporaneo e che presto ne avranno uno adatto ad una coppia: “Comunque siete i benvenuti qui, per tanti o pochi giorni che siano”. Si commuovono, ringraziano. Lui mostra una cicatrice sul sopracciglio sinistro, poi scopre il labbro e mostra un canino mancante. “Libia, posto no bene” dice, “loro… bum!”. E fa il gesto di ricevere un colpo in faccia. “Mon papà” aggiunge… e poi dice qualcosa che non capisco. Capisco il gesto, però: mi sta spiegando che è stato preso di peso e sbattuto contro un muro.
Io ascolto in silenzio. annuisco. Dico spesso: “I know, I know” …. oppure: “We know it”. “You can stay in Italy, now. You can live”.
Lui guarda la sua compagna, poi guarda me e dice: “Yes, Italy is good”. Sorride per la prima volta e fa il gesto del pollice in su, usato e abusato da ospiti e operatori quando ci si deve far capire velocemente senza dover chiamare un mediatore.
Nei pochi giorni che sono con noi chiedono una sola cosa, uno smartphone per chiamare casa via Whatsapp. Hanno una sola banconota in tasca: 100 dollari, a cui si aggiungono i 15 a testa consegnati da noi all’arrivo.
Andiamo in banca a fare la fila, dopo una lunga attesa entriamo e l’impiegata dice che non può cambiare i soldi ai ragazzi perché non sono clienti. Dico che io sono cliente o, per la precisione, lo sono stato. Lei controlla e dice che no, non mi può cambiare il denaro. Insisto: mi scusi ma dove si possono cambiare 100 dollari se non in banca? Mi dice che se fossi ancora cliente mi avrebbe fatto versare i 100 dollari e poi mi avrebbe fatto prelevare 80 euro. Ma, dico, mi scusi, se non cambiate voi i soldi, dove possiamo andare? Non so, mi risponde, provi con la sua banca.
Bene, benissimo! Io sono titolare di un conto online: dove mai potrei andare a versare quella benedetta banconota?
Fra i clienti in fila fuori dalla banca riconosco un amico negoziante di Piazzetta: gli racconto la disavventura e lui, come sempre, osserva i due ragazzi e fa una battuta razzista. Io rido perché so che è un teatrino che fa ogni volta che mi incrocia, per prendermi in giro e tentare di farmi arrabbiare sul serio. Non ci riesce come sempre: una pacca sulla spalla e ci salutiamo. Facciamo neanche due passi che lui mi richiama: “Vieni qua, te li cambio io i 100 dollari”.
Feysal e signora sorridono e ringraziano. Adesso ci tocca un’altra lunga fila da Marzio, al negozio di telefonia. Di economico ha solo un LG da 90 euro; ai ragazzi va benissimo, non devono sfoggiarlo in sgambate sul lungomare o aperitivi: oltre a non conoscere nessuno e dover partire fra pochi giorni, sono anche in pieno Ramadan.
Ringraziano e tornano a casa, ansiosi di poter parlare con i loro cari.
Marco Milozzi